Quando ero un bambino era una celebrità. Al secolo si chiama Camillo Raffaeli ed è stato per decenni una vera e propria icona del mondo del liscio. Non c’era feste di pese nella bassa che non ambisse ad averlo protagonista delle serate danzanti estive. Mi incuriosiva la sua sagoma sui manifesti che lo ritraevano con la sua fisarmonica e con lo pseudonimo di Camillo del Vho. Per anni mi sono chiesto dove fosse collocata nel mondo questa località dal nome tanto corto quanto esotico. E crescendo, da poco più che adolescente un giorno capitai per caso con la moto, nel bel mezzo di un assolato pomeriggio padano, attraversando la più nota Piadena, in quello che di fatto oggi è un quartiere (o meglio una frazione della stessa).

Pur non essendo mai stato un appassionato di liscio mi sono sentito come un fan di Elvis Presley che passa per caso da Menphis. D’un tratto ho immaginato quella fosse la Betlemme degli appassionati del ballo popolare e niente più. Mai avrei potuto immaginare che sempre quel giorno avrei scoperto un luogo che sarebbe rimasto per sempre nel mio cuore.

Si perché al Vho, oltre alla sede accanto alla chiesetta Santa Maria Addolorata presso la Cascina Motta, della nota casa discografica “Edizioni Musicali Camillo del Vho” , c’è una trattoria che rappresenta una delle più alte rappresentazioni della grande cultura gastronomica padana: la mitica “Trattoria dell’Alba”. Un luogo unico dove la famiglia Corbari si succede nella gestione da oltre 150 anni e dove i fratelli Bertoletti (Omar, in sala, e Ubaldo, in cucina. Angela Corbari era la mamma) portano avanti una grande tradizione migliorandola se possibile.

Il locale mantiene il sapore della osteria classica della bassa cremonese e mantovana. Un posto dove può ancora capitare di entrare e di trovare qualcuno che gioca a briscola e bene vino rosso nei bicchieri di vetro. Un sapore un po’ retro’ ma di fatto molto attuale per quello che nei secoli era nato come punto di ristoro e cambio dei cavalli, su quella che per secoli e’ stata una delle vie principali che congiungevano appunto Mantova a Cremona.

Qua dal un secolo e mezzo si mangia e si beve bene. Omar e Ubaldo lo sanno perfettamente e non mancano di ricordarlo nei fatti agli avventori affezionati che qua non mancano mai. Difficile trovare posto senza prenotare in un locale poco adatto ai vegani o agli appassionati di cucine fusion. L’innovazione in cucina non manca certo, ma quasi sempre si accompagna alla riedizione di piatti di grande tradizione. Ovviamente da queste parti il maiale e’ una presenza che incombe minacciosa in tutte le proprie accezioni più disparate.

Maiali “tranquilli” come li definisce Omar, allevati per lo più in zona che si alternano nei prodotti analoghi coi pregiati salumi di un altro grande del territorio: quel Bettella, filosofo dei 300 kg, tanto è il peso degli animali che originano i prosciutti più grandi (e piacevolmente grassi) del mondo i cosiddetti “grossoni”. Enormi prosciutti dolci e profumati ormai oggetto di culto sul mercato degli intenditori. Salumi serviti con la giardiniera di famiglia e coi formaggi caprini freschi, per partire forte nel ripetersi di un rito consolidato inadatto agli stomaci delicati.

Per poi proseguire con i famosi tortelli di zucca alla moda di Piadena, conditi in rosso col soffritto di pomodoro dolce, i classici marobini ripieni con ragù di brasato in brodo, i bigoli di pasta al torchio con le sarde, le tagliatelle col ragù montato a mano, la trippa in brodo. In stagione di tartufo poi non possono mancare i tagliolini o il risotto col pregiato tubero bianco del Po. Poi i secondi che quasi sempre contemplano la presenza del classico bollito, del singolare pollo in agresto, come da antica ricetta del Platina, il tonnato alla moda gonzaghesca del grande Artusi, la lingua nel suo “poccino”, il brasato di guancialino di maiale, l’antica oca Terragna, ricetta della tradizione ebraica e i piatti coi pesci d’acqua dolce.

Su tutti l’anguilla sgrassata tramandata dalla bisnonna Amedea. Unica concessione ad una materia prima non locale, il Baccalà. Il tutto accompagnato quasi sempre dalle famose mostarde del locale di mele o di anguria. Anche se la mia preferita resta quella più contaminata culturalmente, la cosiddetta “mostarda ad partugai”. Così almeno in dialetto chiamavano dalle mie parti una mostarda di mandarini piccantissima. Gli agrumi in genere (e in particolare i “partugai” appunto i mandarini) venivano utilizzati per essere mescolati agli altri frutti con una funzione specifica: riescono ad immagazzinare il Piccante della senape e permettono una conservazione della mostarda più lunga del solito, rallentando l’evaporazione del prodotto e mantenendolo piccante a lungo.

Una mostarda con soli mandarini può mettere alla prova le narici di qualche sventurato cliente, ma da soddisfazione agli appassionati di gusti forti. Omar poi è un grande appassionato anche di vini e distillati. A lui (come a me) piacciono molto i vini rossi invecchiati e la carta del locale può riservare grandi sorprese. Un luogo perfetto in pratica. Dove forse manca solo il sottofondo musicale del celeberrimo Camillo, anche se fino ad oggi, a parte me, pare non essersene accorto nessuno.