Un exploit destinato ad avere effetti duraturi, un successo di quelli che lasciano il segno, a maggior ragione perché ottenuto a Parigi, nel salotto più snob della gastronomia mondiale. A sancire l’impresa dello sbarco dei prodotti lombardi in Francia, oltre all’istituzione per eccellenza Albert Nahmias, è addirittura Gilles Pudlowski, il sommo letterato della critica enogastronomica transalpina. Una vera e propria autorità in materia, che sul suo seguitissimo blog Les pieds dans le piat scrive: “Mori le lombard… vive le Mantouan Mori, qui défend sa région si diverse, si profuse, avant un allant si convaicant!” Se la traduzione appare superflua (un profluvio di complimenti), non sarà ozioso invece ricordare a chi si riferisca il critico, citando, già nel titolo del suo articolo, uno dei più intraprendenti ambasciatori della cucina territoriale del nord Italia. Titolare dell’omonimo ristorante (Mori Venice Bar), ubicato nel centro di Parigi, il viadanese Massimo Mori ha molti motivi per rallegrarsi, non da ultimo l’attestato di “miglior maître di Francia”, come dal 2002 è definito dalla stampa specializzata transalpina.

l1300370Nato nell’agricolo habitat in fronte al Po – tra meloni, allevamenti di bestiame e cucina tradizionale – sicché profondo conoscitore della materia prima, Mori si è recentemente distinto per alcune proposte che hanno stupito l’esigente clientela francese; piatti che si sono imposti grazie alla capacità di ricollegarsi sapientemente al territorio d’origine: formaggi, riso, zucca, vini (con segno a matita rossa per Pudlowski, che invece di Nino Negri, scrive Nino Negroni, forse confondendo lo Sfursat con il cocktail fiorentino?); dalla Valtellina all’Oltre-Po pavese, passando per le valli bresciane e bergamasche, senza trascurare Mantova e Cremona (e quello che c’è lì in mezzo, tra Oglio e Po), si apre un mondo di produzioni di eccellenza ancora relativamente poco conosciuto. La novità, oltre alle già assodate caratteristiche di una cucina sempre meno “elaborata” e perciò privilegiante la qualità dei prodotti, risiede proprio nella connessione simbiotica con la terra. Terra come campo, terra come tradizione, terra come alimentazione. D’altronde è proprio quello che i francesi promuovono benissimo da anni, facendo credere al mondo che la nouvelle cuisine sia qualcosa di astratto ed alieno. Un equivoco che il maestro Gualtiero Marchesi dipanò a suo tempo con chiarezza, tanto da meritare l’appellativo di antesignano nell’anteporre la qualità dell’ingrediente alla sua lavorazione.

2419536Quella tra Francia ed Italia è per altro una rivalità posticcia, una sfida tra stereotipi “nazionali” riduzionisti e banalizzanti, dato che nessuno – se non i qualunquisti – mangia “francese”, come nessuno mangia “italiano”, per non parlare dei vini. Un bluff da cartolina generalista, che nel competitivo mondo dei mercati globalizzati risulta assolutamente controproducente perorare. Questo i francesi l’anno capito per tempo, promuovendo abilmente la politica dei terroirs, ovvero il connubio tra una determinata zona e le eccellenze ivi prodotte. Il vino è frutto dell’uva non di una generica vigna, ma della tenuta di quel castello (Château), indissolubilmente collegata ad una sublimazione di elementi storici, estetici, financo antropologici.

Qui entra in scena l’altro grande protagonista della performance parigina, ovvero l’assessore all’agricoltura di Regione Lombardia reduce dal SIAL, l’altrettanto viadanese Gianni Fava. Coincidenze di provenienza con Massimo Mori, nessuna coincidenza invece per quanto riguarda la determinazione nel lavorare sulla qualità. Come non essere d’accordo con l’assessore, quando propone una rivoluzione semantica per la messa al bando dell’obsoleta terminologia “prodotti tipici”? “Prodotti distintivi” – seguendo la proposta di Fava – non è solo più efficace per superare la consunzione di quello che si è ridotto ad essere un vago modo di dire, o perché suona meglio, ma bensì perché introduce l’elemento identitario, quello che riporta (verrebbe da dire con indotto turistico) il prodotto a quel determinato luogo esclusivo. Dal lavoro della terra e dalla riscoperta di produzioni considerate di nicchia, dalle realtà consolidate capaci di stare al passo con l’innovazione, parte una sfida che è soprattutto di conoscenza e di consapevolezza, perché si mangia anche, forse soprattutto, col cervello; questo è oro puro per un territorio come quello lombardo, così variegato e ricco di specificità. Perché il cibo è cultura e la cultura parte dal rendersene conto.

Le immagini sono tratte dal blog di Gilles Pudlowski