L’acre e calda fragranza sprigionata della legna di ginepro ridotta in brace. Lo stridore metallico degli “schidoni” rigirati che si perde tra le mille voci gioviali di una conviviale prossima all’esser consumata. Lo sfrigolio di un’invitante e burroso intingolo raccolto e versato più volte su delle rossastre carni ormai prossime alla cottura. Queste e altre sono le sensazioni che solitamente si possono vivere durante la preparazione di una delle pietanze più tipiche di tutto l’agone enogastronomico lombardo, simbolo di un’intera comunità territoriale e oggetto di una vera e propria venerazione popolare (in specie, da parte di quei gruppi di appassionati riunitisi in apposite confraternite dedicate): lo spiedo bresciano.

Piatto di chiara origine rurale, nata dal perfetto connubio tra le carni degli animali allevati nei cortili e quelle della selvaggina volatile catturata durante la stagione venatoria, lo spiedo bresciano è costituito nella sua ricetta originale (preparazione DECO nei comuni bresciani di Gussago e di Serle) dai dei pezzi di carne di varia tipologia (dette “prese”) infilzati in maniera alternata con delle patate su dei lunghi spiedi (detti appunto “schidoni” o “ranfie”) e messi a cuocere dalle quattro alle sei ore circa in dei lunghi forni, costituiti da due supporti a tamburo rotanti sotto ai quali viene messa la fonte di calore e al di sopra dei quali si trova un recipiente forato che ne copre tutta la lunghezza.

La realizzazione della gustosa e antica pietanza è suddivisibile in tre fasi principali:

  • la fase di preparazione dei “momboli”, in cui (dopo il taglio delle porzioni), si arrotola una fetta di coppa assieme ad una foglia di salvia, ricoprendola poi con una fetta di pancetta o di una di lardo mentre si sbucciano le patate, tagliandole poi a rondelle;
  • la fase di “spiedatura”, in cui vengono infilzati nello “schidone” le patate e poi a seguire le varie “prese” di maiale, di pollo, di coniglio e gli uccelletti, assolutamente non pressandole tra di loro ma solamente appoggiandole (per evitare le conseguenze di una cottura non uniforme) e interponendo tra ognuna una foglia di salvia ed una fetta di pancetta (a ridosso della sola cacciagione, vengono posti anche dei quadretti di lardo, necessari per mantenere i piccoli volatili morbidi ed evitare che si secchino durante la cottura);
  • la fase di cottura, in cui la “ranfia” riempita viene bagnata (e condita) da un intingolo di burro fuso, grasso e sale che viene costantemente ripescato dalla vasca di raccolta posta sul lato inferiore del forno fino alla vasca forata posta sulla sommità, che lo lascia gocciolare lentamente sugli spiedi sottostanti in roteazione.

Una volta pronto, il piatto (preceduto in genere da un primo magro, come la tipica minestra sporca bresciana) viene accompagnato da una polenta condita con l’intingolo di cottura dello spiedo e da un vino rosso corposo (più che necessario visto la natura ricca e saporita della pietanza). Nella migliore tradizione lombarda, esistono naturalmente delle peculiarità tra gli spiedi delle varie zone della provincia (soprattutto tra la Franciacorta, la Val Trompia, la Val Camonica, la Val Sabbia, la zona del Garda e Brescia): le differenze riguardano più che altro la tipologia di cottura e delle “prese”, i contorni, il metodo di salatura e quello di “spiedatura”. Incredibilmente, l’unica vera costante (sottolineante difatti l’uniforme tradizione venatoria presente in tutto il territorio bresciano) è propria quella che oggi costituisce il particolare illegale (e perciò proibito) della ricetta tradizionale bresciana, oggetto di una politica proibizionistica fin troppo severa e, a tratti, quasi grottesca (ovvero, l’utilizzo della piccola cacciagione volatile, oggi salvaguardata dalla legislatura sulla caccia che ne vieta l’utilizzo in ristoranti e locali pubblici anche se proveniente dall’estero).