di Riccardo Pozzi
La prima volta che capita di essere invitati a bordo di una barca si sconta la sgradevole impressione di essere completamente rimbecilliti. E’ una sensazione automatica e riflessa da una precisa difficoltà ambientale rappresentata dal linguaggio. Le cose, le azioni, le parole che ci si scambia su un oggetto galleggiante vengono inspiegabilmente tradotte nella lingua del luogo: il “barchese”.
Le corde si chiamano cime, il secchio bugliolo, il cibo è la cambusa, non si tira ma si cazza, non si molla ma si lasca. I nodi hanno addirittura nomi propri, Piano, Corsoio, Savoia, Gassa d’amante, e anche rifugiarsi nella zona timone è pressoché vano perche si viene presto raggiunti da urla che intimano di “orzare o poggiare”.
E poi gomene, tangoni, sartìe, bompressi, borose, rande, fiocchi e drizze. Insomma è una specie di babele del disagio e dell’incomprensione.
Quando, infine, si torna in porto cercando di ormeggiare può capitare che qualcuno dalla banchina, con fare a metà strada tra lo scrutinante e il presuntuoso, ti ordini di fare una gassa sotto la bitta.
Niente è più umiliante, per un navigante di campagna che ha visto solo granturco, che stare in piedi su una barca con una corda in mano cercando di capire come si faccia una gassa e cosa diavolo sia una bitta.
Le opzioni sono essenzialmente due: o si studia la lingua o si evitano i natanti.
Ma c’è una terza via per rispondere al “barchese” e a tutti quelli con la mania dei gerghi e degli slang incomprensibili quanto arbitrari: quella del rilancio. Inventarsi ,cioè, di sana pianta nuovi termini, mettendo in crisi di inadeguatezza chi non ha avuto pietà del nostro imbarazzo e farlo sospettare di essersi perso qualche nuova parola.
Il metodo è più semplice di quanto non sembri. Creare arbitrariamente nuovi acronimi completamente insistenti, inutili inglesismi, gergalità pretestuose, pseudogiovanilistiche,
digital-giornalistiche, burocratesi o finte professionali è abbastanza facile. Ed è il sistema più rapido per sistemare quelli che, ad esempio, citano sempre sigle e acronimi o quelli che hanno la sciagurata abitudine di parlare inglese anche quando non serve a niente e buttano lì un “top” ogni dodici secondi, oppure i maniaci della professione che amano citarsi addosso, come se tutti fossero al corrente dei loro pedanti tecnicismi. E’ vero, la tattica non è scevra da rischi. Ma se qualcuno si insospettisce e mostra di percepire il vago sentore di presa per le terga, basta armarsi di bronzea espressività, e intimargli, con sguardo estraneo alla minima vergogna, di fare una gassa sotto la bitta.