“Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui.” Nella sua celebre “Commedia” (solo in seguito ribattezzata “Divina” per opera del Boccaccio), Dante Alighieri utilizzò queste parole per presentare  quel personaggio che, nel suo viaggio mistico attraverso i tre regni dell’aldilà, lo avrebbe guidato attraverso i dannati sentieri dell’Inferno e quelli dolenti del Purgatorio: l’anima di un virtuoso poeta che il letterato fiorentino considerava più che una figura di riferimento, vissuto ai tempi dei Cesari ma figlio delle agresti terre lombarde e dei placidi laghi mantovani. Lo spirito in questione, non era altri che il vate latino Publio Virgilio Marone.

Nato nel 70 A.C. ad Andes, villaggio allora poco distante da Mantova, Virgilio era figlio di un benestante possidente terriero sposatosi con la figlia di un rinomato mercante locale: compiuti i primi studi presso la scuola di grammatica di Cremona, venne mandato dai genitori a Milano presso la scuola oratoria, affinché apprendesse i primi rudimenti per una futura carriera legale. Di carattere estroverso e solitario, ben presto fu chiaro che il futuro vate mantovano non era adatto a seguire il sentiero tracciato per lui dai genitori e ritornato nella quiete del sua casa natia, cominciò a occuparsi dei suoi veri interessarsi (ovvero la poesia e i versi): fu in questi anni, nella placida quiete del suo ritiro agreste, che Virgilio produsse i suoi primi carmi a carattere pastorale, i quali costituirono in seguito l’ossatura fondamentale della sua prima produzione letteraria. Ma la tranquilla esistenza di Virgilio subì presto una grave scossa: difatti, la situazione economica della sua famiglia fu minata in maniera irrimediabile dalla confisca delle sue terre, espropriate dallo stato romano come ritorsione verso i territori cremonesi e mantovani per aver supportato la causa dei cesarecidi Bruto e Cassio e poi concesse ai militi veterani della battaglia di Filippi. Fu un duro colpo per Virgilio, il quale non si riprese mai del tutto da questa perdita.

Deciso ad allontanarsi da un luogo ricco di troppi ricordi (e di malinconia), attraverso l’aiuto di alcuni amici riuscì a trasferirsi nelle terre al sud, dividendosi tra i circoli di retorica di Roma e quelli filosofici di Napoli: in questi anni da “nomade”, Virgilio redasse i suoi primi celebri testi (la raccolta de “Le Bucoliche” e quella de “Le Georgiche”) ed entrò nel circolo ristretto di letterati che faceva capo al celebre Mecenate (il ricco patrizio il cui nome sarebbe poi diventato sinonimo di “protettore d’artisti”). Fu proprio tramite quest’ultimo che Virgilio ebbe la possibilità di conoscere Augusto (il successore di Cesare e, de facto, primo imperatore romano): entrato nelle grazie del nuovo padrone di Roma, ben presto fu da questi esortato a produrre un poema di grande respiro che potesse costituire una specie di monumento alla nuova era che grazie a lui stava ormai per sorgere tra i colli romani e in tutto l’impero.

Il poema in questione è naturalmente l’Eneide, che Virgilio iniziò nel 29 A.C. ma che non riuscì a concludere a causa della prematura morte (avvenuta intorno al 19 A.C. a Brindisi, mentre era di ritorno da un viaggio in terra greca): si racconta che sul letto di morte, il poeta supplicò alcuni amici di distruggere l’opera incompiuta, in quanto considerata imperfetta e non degna di essere tramandata ai posteri. Ma i compagni del vate disobbedirono alla sua ultima richiesta e la consegnarono  ad Augusto, il quale pubblicandola la fece diventare il poema nazionale della nuova Roma imperiale. I resti del grande poeta furono trasportati a Napoli (città considerata dal poeta come una seconda casa), dove furono custoditi per molto tempo in un tumulo tuttora visibile, sulla collina di Posillipo e dove è ancora visibile il celebre epitaffio: “Mantova mi ha generato, il Salento mi rapì la vita, ora Napoli mi conserva: cantai di pascoli, campagne e comandanti.”