cf4“In girum imus nocte et consumimur igni” è un palindromo d’origine latina, talvolta attribuito a Virgilio, ma senza riscontri oggettivi. Tradotto suona più o meno così: “giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco”; il motto, utilizzato ritualmente nel medioevo per propiziare la rivelazione della pietra filosofale, è ora impresso su un particolare timbro per ceralacca, ad esclusivo appannaggio di una misteriosa congrega. Si tratta della Confraternita del Tabarro, sodalizio deambulante nottetempo per le strade nebbiose della bassa padana. Non è raro vedere le loro ombre furtive, allungate dalle fioche luci, sotto i portici o in piazze deserte, nelle gelide nocf1tti invernali. I confratelli, dopo aver ricevuto dal gran cerimoniere una convocazione cartacea sigillata, indicante ora e luogo dell’incontro, provvedono a togliere dalla naftalina il tabarro, preparandosi quindi all’appuntamento. Alcuni, più fortunati, vestono mantelli d’epoca, forse ritrovati in qualche cassa in soffitta e appartenuti a nonni o bisnonni; altri hanno trovato soluzione acquistando il particolare capo d’abbigliamento direttamente dai produttori – soprattutto veneti e romagnoli (dove il tabarro era chiamato capparella) – oppure in esclusive boutique. Sia a Milano (Manifatture Mario Bianchetti) che a Bergamo, infatti, è possibile esaudire questo sogno d’altri tempi.

Quando si indossa il tabarro la mistica deborda in romantica leggenda, la notte fuori sembra più fredda e buia, ma probabilmente è solo una percezione psicologica, visto che lo scopo agognato della (volgarmente detta) “tabarrata” è quello di raggiungere un luogo caldo ed accogliente; un bugigattolo, una taverna, dove trascorrere in allegria alcune ore tra sodali. Osterie e trattorie, principalmente tra Mantova e Cremona, ultimi preziosissimi baluardi della cucina tradizionale sopra il Po. Ma anche vecchie locande in città, giacché il tabarro, nato contadino e popolare, si distingue per sobria eleganza anche nei massificati e multicolor contesti urbani. Agnolini o Marubini in brodo, tortelli di zucca con pomodoro o con burro fuso e Grana Padano, qualche centinaio di metri può essere decisivo per sentirsi raccontare tutt’altro menù. Si ascolta l’oste chiacchierone, si pondera, si tergiversa, ma poi si mangia e si beve il giusto: sorbir, polenta, salame, ciccioli, lambrusco, nocino… anche i più progressisti cedono estasiati, perché vi sono appartenenze che travalicano le opinioni. cf3Gli uomini avvolti nel tabarro, però, rifuggono l’idea della cena formale; si tratta per lo più di merende tardo-serali, ristoro per forestieri bussanti alla porta, pretesti frugali per rendere lieto l’evento di un approdo. D’altronde il pellegrinaggio da “regno delle tenebre padane” segna fredde rotte brumose, s’incunea per stradelli dove l’umidità entra nelle ossa, pare sempre terminare in un nulla grigiastro. Qui c’è poco da fare, solo il tabarro ti può salvare, prima di trovare alloggio.

cf2-copiaStile contadino, panno grosso e cervello fino. Il tabarro non è un indumento stravagante, un abito come un altro per rievocazioni vintage, una veste carnevalesca, men che meno un vezzo da egocentrici in cerca di facile notorietà in società. Senza cerniere e bottoni, s’accomoda perfettamente al corpo con un gesto deciso all’indietro, che ha il sapore della sfida. Il tabarro – così come il prodotto della terra non è più “tipico”, ma “distintivo” – rappresenta l’appartenenza formale ad un mondo che ci si dette troppa fretta a dar per morto. Quando i passi si susseguono spediti sotto portici infiniti, nell’atto di fendere l’impalpabile coltre di nebbia, a terra si nota un velo d’acqua appoggiata come un vetro, liquido riflesso sulle pietre roride, luci da qualche parte s’allargano in pulviscolo umido: forse lanterne giallastre o un miraggio da basse temperature, forse solo il desiderio di casa, l’ipotesi d’un fuoco attorno al quale tramandarsi fiabe e leggende, dove far tardi a discapito delle incombenze del giorno dopo. Gli uomini in tabarro, resistenti alla modernità globalizzata, perseverano in un’arcadia felice, perché conservano la metafisica capacità di vedere una luce lontana, quando la foschia cala il suo velo uniformante, il suo sipario campestre.