Una Regione pragmatica, un territorio votato al lavoro, un’area d’Europa caratterizzata da eccellenze economiche e produttive, un luogo dove la ricchezza raggiunta rappresenta il frutto di sacrifici, di innata forza di volontà e di naturale propensione all’innovazione. Ma la Lombardia, oltre gli stereotipi, è anche terra di grande cultura: arte, architettura, teatro, cinema, letteratura hanno lasciato e continuano a lasciare segni preziosi dell’ingegno e dello stile dinamico che ne caratterizza l’essenza più profonda. Cultura è termine di assai vasta accezione, quasi impossibile da sintetizzare in questo caso e forse per questo sembra superfluo stilare un elenco di nomi – per altro potenzialmente interminabile – in grado di rappresentare in sunto storie, cambiamenti, evoluzioni, tendenze. Giusto per mantenersi alle omonimie: quale distanza maggiore potrebbe intercorrere tra l’opera di Alessandro Manzoni e quella dell’artista di Soncino Piero Manzoni? Certo è che definirli entrambi lombardi potrebbe risultare apparentemente banale, un dato di fatto da ufficio anagrafe e nulla più. Quello che invece risulta interessante è la forza rappresentativa che questi due nomi potrebbero evocare in vista di un approfondimento sul tema. Da un lato la Lombardia contadina, pre-industriale, fortemente legata alla devozione popolare, la Lombardia delle cascine, della terra arata e delle vie fluviali, dei castelli, dei vecchi mulini, di nebbie e tabarri, delle chiese di campagna. Dall’altro c’è la Lombardia frenetica della modernità, dell’infatuazione metropolitana, dell’estetica “industriale” e futurista tipica delle avanguardie – Milano come epicentro di ogni fermento – dei palazzi che salgono sempre più verso il cielo, della tecnica che si trasforma velocemente in tecnologia. Indubbiamente questi contrasti potrebbero adattarsi anche ad altre regioni dell’Italia settentrionale, alimentando così la dicotomia città – campagna quale segno inconfondibile di un mutamento storico ben identificabile nel secolo scorso, il passaggio dalla civiltà contadina e rurale alla civiltà della tecnica. Proprio in questa trasformazione contraddittoria, a mio avviso, risiede il fascino peculiare e tutto lombardo del “fare cultura”, la capacità dinamica di concretizzare le spinte propulsive della contemporaneità senza dimenticare che questa metamorfosi continua ha origini profonde nel passato. Generalizzando non più del dovuto potremmo affermare che l’indole culturale lombarda si distingue per la spiccata tendenza evolutiva di una data condizione, atteggiamento ben diverso dalla contemplazione passiva, un po’ da presepe, tipica di altre zone d’Italia o dalla radicale cesura con il passato tipica di alcuni paesi del Nord Europa. Anche dal punto di vista enogastronomico, ambito di immediata comprensione e a ragione inserito nel patrimonio culturale tipico di un determinato territorio, è ben presente questa caratteristica fondamentale; qui si nota infatti un desiderio diffuso di recupero della tradizione culinaria – con tutta una serie di micro produzioni locali in gran spolvero – senza che questo significhi automaticamente un nostalgico ritorno al passato. Gualtiero Marchesi, antesignano degli chef comunicatori e per molto tempo definito a torto “modernista” non ha fatto altro che tradurre in linguaggio contemporaneo i sapori lombardi, conferendo al suo operato una dimensione, anche estetica, di indubbia valenza culturale. Ecco quindi che il piatto servito in tavola così come e l’atto di cibarsi, diventano esperienze multisensoriali uniche, capaci di arricchire attraverso il piacere momentaneo ma anche di divenire stimolo per una conoscenza più approfondita della nostra terra.

Donato Novellini