Riservato a quanti vogliano immergersi in un tempo perduto ormai scordato, sospirare l’arrivo di un rito atavico che nel passato ogni paesano attendeva con trepidazione: l’uccisione del maiale e il concomitante calare della nebbia. Nonostante gli sforzi odierni di favorire il genocidio delle culture locali e popolari, entrambi erano, sono e resteranno nella nostra memoria l’espressione del novecento, quando una fetta di salame in una mano e di pane nell’altra rendevano più sopportabili anche le peggiori privazioni.
La nebbia fitta e bassa della pianura che trascina il paese fuori dal tempo e l’uccisione e l’immediata concia delle carni del maiale, che in questa zona ha tradizionale residenza, sono legati tra loro da un filo invisibile e indissolubile, come ingredienti della stessa ricetta, protagonisti della stessa sceneggiatura, di un tempo che scorre lentissimo quasi immobile, nella speranza che succeda qualcosa e avvertire la sensazione che niente succeda mai.
Tentare di rappresentare questa cerimonia con delicatezza senza considerarla una pratica brutale, sarebbe inattendibile, il sacrificio del maiale assume valenze altamente simboliche: è infatti la testimonianza dell’importanza sacra che la pratica occupa all’interno della società agricola scandendo la vita rurale e descrivendo il carattere tipico della cultura contadina ancora legata a questa tradizione millenaria ed espressione dell’identità e del modo di vivere il lavoro, la fatica, la campagna e la fede. In tutta la valle del po, seppure con accenti e dialetti differenti, il culto gastronomico del maiale è continuo argomento di discussione di tavola e di vita.
Il testamento del maiale, amplifica l’impatto sensoriale formato da memorie di parole e frasi, gesti e persone, sapori e odori come l’asprigna esalazione delle budella lavate con acqua bollente e aceto, la fragranza esotica della noce moscata e quella persistente dell’aglio necessarie per l’insaccatura del salame, “al gras pestà“ cioè il battuto di lardo di maiale da stendere sull’abbrustolita polenta, la pentola fumante che lentamente bolle per ore interminabili per cuocere gli ossi di maiale o il risotto col “pistum”(pasta di salem), meravigliosi odori di ricordi che non evaporano.
Immagini in bianco e nero, fotografie delle memoria forse sbiadite che appartengono con la forza dei rumori e dei silenzi, alla cultura contadina proteggendo il legame di appartenenza degli uomini alle proprie terre, nei quali il salame, il cotechino, “greppole” sono i nomi del gotha culinario legati al mondo degli insaccati e tutti appartenenti alla pianura padana terra generosa dispensatrice di ricette sublimi radicate nella civiltà contadina.
Oggi la macellazione segue norme igenico sanitarie e criteri ben precisi finalizzati ad ottenere la minore sofferenza dell’animale, dissipando quasi totalmente i saperi della storia gastronomica del maiale. Viene meno così anche la figura del norcino, questo artista del mestiere infatti tramanda solo verbalmente e solo alcune segreti delle sue conoscenze. Unicamente nella norcineria casalinga e un po’ carbonare e possibile assistere alle sue abilità tra le quali l’insaccatura e la legatura richiedono competenze e abilità impareggiabili.
Riscoprire le ricette tradizionali e i luoghi di lavorazione, recuperare prodotti “in via di estinzione” questa magia è possibile consumarla al “SaLtuario” della Grazie di Mantova dove recentemente è stata inaugurata la prima cotechineria d’Italia, dove è possibile degustare l’unico cotechino che ha ricevuto la denominazione comunale (De.Co) e confidando proprio nel nome della magnifica ubicazione in una celestiale pace dei sensi.