Si fa presto a dire pesce, tra sushi e crudità minimali, sovente degustabile in lussuosi attici metropolitani o in locali-design dal glaciale gusto fusion. Passato il tempo dei branzini e delle orate alla griglia, la cucina moderna serve a tavola esperienze sensoriali ibride, in grado di traslare nell’esotico l’autoctono, spesso ai danni di quest’ultimo.
Comprensibile in una metropoli come Milano, meno altrove se non soggiacendo ad un conformismo di rimando; quello, ad esempio, che fa sembrare allettanti – in luogo d’alienanti – certi deschi, piombati come meteoriti nella bassa padana: laddove erano risotti col pes gat o con i saltarei in rustica osteria, ora sono onigiri e sashimi in tempietti laccati oro, per la gioia tentacolare dell’imprenditorialità cinese, sempre abile a reinventarsi, anche a costo di mimare tradizioni storicamente avverse come quelle nipponiche. Contrapposizione forzata, si dirà, ma tant’è: ancor prima che l’obsolescenza toccasse la tradizionale cucina di mare italica, destino più spietato ebbe in sorte il pesce d’acqua dolce, fastidiato dapprima dall’inquinamento fluviale e poi da una immeritata patina di vecchiume. Ma com’è ben noto, il vecchio impiega meno tempo a diventare antico del moderno, acquisendo di conseguenza tutto il valore delle rare cose perdute.
Estate anni ‘90, Salò, lago di Garda. Lo scrivente entra con consorte in una minuscola enoteca, fresca all’interno perché la casupola del centro storico è in sasso. Ignaro delle regole implicite, fortemente localistiche, s’azzarda ad ordinare un Gewürztraminer e “qualcosa da mangiare”. Implacabile la replica del burbero e baffuto oste, sosia di Paolo Conte: “Se vuole del Traminer vada in Alto Adige”, stabilendo così da subito che lì dentro sarebbe stato lui a comandare e non un qualsiasi cliente capitato per caso.
Arriva in tavola uno straordinario carpione al vapore con capperi del Garda, accompagnato da una bottiglia di Lugana ineguagliabile. L’esperienza culinaria diventa così atto formativo. Ma come? – ci si chiese – non è quello il vino del supermercato più economico? Non è quello un pesce da vecchi, giacché tutti s’arrabattano ad ordinare aragosta, anche da queste parti? Quei clandestini piaceri, all’epoca confinati in un’enclave di sincerità, misero fine alla casualità delle ordinazioni. In seguito furono lumache e rane, anguille e storioni, pesce persico e luccio in salsa, lasciando così l’aragosta in pianura agli sprovveduti.
Si diceva di una dialettica artificiosa, fra tradizione e modernità. A ragione, dal momento in cui – senza scomodare Bauman o il Panta rei di Eraclito – non è certo l’ortodossia un po’ nostalgica dei bei tempi andati e delle foto ingiallite dei pescatori, a conferire l’attestato qualitativo tanto agognato. Occorrono duttilità, fantasia, nuove competenze, curiosità, attitudini necessarie per traslare gli “antichi sapori” in un contesto fortemente concorrenziale come quello attuale.
Potendo indicare un solo esempio dove ciò magicamente accade, verrebbe da dire Caffè La Crepa, di Isola Dovarese, in provincia di Cremona. Situato nel rinascimentale palazzo della guardia, affacciato sulla metafisica piazza centrale, elegantemente art-noveau senza mai risultare inutilmente elitario, il ristorante è riuscito negli anni a coniugare sapientemente la tradizione fluviale padana, fatta di ricette semplici, con il gusto tutto francese della valorizzazione delle tipicità. La famiglia Malinverno, gentile custode di questo luogo speciale, di questo presidio di autenticità, rinnova anche grazie all’estro del giovane Federico, un patrimonio inestimabile, fatto di vini e pietanze eccellenti, ma pure di bellezze pudiche: quelle di borghi nascosti dove le acque si muovono lente, così come le cene, che alla Crepa si vorrebbero sempre protrarre ad oltranza.
Da segnalare lo spaghetto all’uovo con carbonara d’anguilla, il foie gras en terrine, lo storione del Po, nonché la blasonata tradizione dolciaria del locale. Davvero è un piacere raro, quando la tradizione ha il sapore della realtà.