Una poesia di formaggio, così potremmo sintetizzare la meravigliosa storia del Bitto. Per raccontarla a dovere non sarà ozioso contestualizzare, dato che il legame simbiotico tra prodotto e territorio è in questo caso particolarmente marcato. La Valtellina è stretta e lunga, a fronteggiarsi da un lato l’ombra minacciosa delle alte montagne Orobiche e, sull’altro versante, la parte soleggiata caratterizzata dai tipici vigneti a terrazze (con uvaggio a base Nebbiolo dal quale escono i sublimi Sforzato, Inferno, Sassella, Grumello, Maroggia, Valgella). Una specularità “fisica” ed una contrapposizione microclimatica, che hanno naturalmente privilegiato di qua pastorizia e di là viticoltura. La valle, abitata fin da tempi remotissimi, conserva anche altri dualismi, certamente più problematici, ovvero quelli relativamente recenti concernenti civilizzazione e tradizione, tecnica e natura, costruzione e paesaggio. Nell’immaginario collettivo la montagna è ancora luogo immacolato, sovente idealizzato, caratterizzato da atavici usi e costumi. Certamente difficile da comprendere appieno per il turista occasionale, resta un contesto a parte; una regione dove vige il confronto serrato tra uomo e natura, perché il prosperare è frutto di sacrifici e spesso di totale abnegazione, proprio come quando la vita coincide col medesimo lavoro tramandato da generazioni.

bittoGiusto qui, nel “versante in ombra”, dove il torrente Bitto taglia la valle prima d’intrufolarsi nell’Adda, si è consumata una battaglia epica, che pur non assomigliando per efferatezza a quelle antiche tra celti e romani, tramanda fino ai giorni nostri una mai sopita conflittualità. La metafora è volutamente forzata, propedeutica a tornare sul contenzioso che da qualche anno vede contrapporsi due diverse produzioni di formaggio Bitto. Due visioni alternative e forse inconciliabili – egemonica l’una e indipendentista l’altra, per restare nel paragone? – emblematiche di altrettante opposte concezioni dello stare al mondo, tanto da conferire plausibilità al termine diaspora. I fatti: Al fine di ottenere il riconoscimento DOP, il Consorzio caseario locale, agli inizi degli anni duemila inaugurò una strategia espansionistica e compromissoria, nella giusta convinzione d’avere tra le mani (oltre al Casera) un piccolo tesoro da commercializzare. Numeri, quindi, da far lievitare per rendere possibile l’immissione del prodotto nel mercato globale. Una scelta ragionevole, in apparenza. Se non fosse, stando alla controparte, che il Bitto si caratterizza per peculiarità di realizzazione – regole tutt’altro che folkloriche, anche se affascinanti in quanto refrattarie ai mutamenti – difficilmente scollegabili dall’ancestrale tradizione.

Nasce quindi la fronda dei ribelli, dei resistenti, dei reazionari ortodossi che la cronaca ha trasformato in poetici anarchici del sapore, in romantici rivoluzionari delle altitudini. Poco più d’una decina di casari, cappeggiati da Paolo Ciapparelli, i quali hanno reagito con determinazione dinnanzi alle modifiche apportate al disciplinare. Lo hanno fatto inizialmente da carbonari, organizzandosi e consorziandosi, non con le solite geremiadi parolaie, bensì tracciando una linea di demarcazione invalicabile. Caposaldo di questo sodalizio il mantenimento di un patrimonio a tutti gli effetti etno-culturale: vacche al pascolo da giugno a settembre, senza alcuna integrazione con mangimi, al fine di esaltare la qualità del latte (conseguente al nutrimento naturale, tipico del microclima alpestre); lavorazione immediata a caldo del latte appena munto, nei paioli di rame con fuoco a legna dei “calecc” (sorta di caseifici ambulanti, adiacenti ai pascoli), per evitare la prolificazione batterica; utilizzo di attrezzature in legno, prima dei 70 giorni necessari per la maturazione. Ma chi potrebbe essere così scellerato da degustare un Bitto di tal fatta, senza valutare i benefici della lunga stagionatura? Tant’è che a Gerola Alta è nata una “banca” di sasso per la conservazione dei formaggi; in quel caveau, riposano forme di Bitto lasciate in deposito dai clienti, in attesa di essere ritirate per occasioni speciali. Decisamente una forma d’investimento oculata.

Ritmi lenti e numeri limitati, un approccio produttivo artigianale incurante dei mutamenti, rituali tramandati da generazioni, sfida all’omologazione e al livellamento quantitativo: quella dei ribelli del Bitto s’è trasformata in una scelta strategica meno fiabesca ed utopica di quanto possa sembrare; premiata dall’attenzione internazionale e da un presidio Slow Food che assomiglia molto ad una cittadella fortificata medievale, ma tuttavia abile nello sfruttare marketing e nuovi canali di comunicazione. C’è una sede infatti, come accennato, ma pure un marchio coraggioso e un po’ no-global, quello dello Storico Ribelle. Ora, l’amore incondizionato per il Bitto, unito alla sostanziale assurdità nel voler esprimere pertinenti sentenze da quaggiù (bassa pianura), induce a rammentare la saggezza salomonica; riguardo al contenzioso fra “tradizionalisti” ed “evoluzionisti” sarà il caso di accomodarla così: diverse concezioni produttive per diverse fasce di mercato, quindi auspicabile coesistenza nell’unico interesse di un formaggio davvero straordinario, meritevole d’essere degustato anche da chi non ha le disponibilità economiche per potersi permettere una forma da depositare “in banca” per anni. Romanticismo e pragmatismo raramente convergono, ma c’è una sentenza di Clifton Fadiman che recita: “Un formaggio può deludere. Può essere noioso, ingenuo o troppo sofisticato. Eppure resta il formaggio… la corsa del latte verso l’immortalità”. L’unico auspicio che da devoti auspichiamo: l’immortalità del Bitto. Anzi no, Bitto e Storico Ribelle!

immagini tratte da: www.formaggiobitto.com e www.altarezianews.it