I moti di Milano furono una rivolta di una parte della popolazione di Milano contro il governo, che si svolse tra il 6 e il 9 maggio del 1898. Gli scontri avvennero a seguito di manifestazioni da parte di lavoratori che scesero in strada contro la polizia e i militari per protestare contro le condizioni di lavoro e l’aumento del prezzo del pane dei mesi precedenti, come avvenne anche in altre città italiane nello stesso periodo.
Le notizie da Milano portarono il governo a dichiarare lo stato d’assedio con il passaggio di poteri al generale Fiorenzo Bava Beccaris. Egli agì duramente fin dall’inizio per soffocare ogni possibile forma di protesta; l’utilizzo indiscriminato delle armi da fuoco e, in particolare, di cannoni all’interno della città portarono il risultato desiderato, ma anche numerose vittime, spesso semplici astanti. I «cannoni di Bava Beccaris» passarono alla storia come simbolo di un’insensata e sanguinosa repressione.
Gli avvenimenti furono considerati parte della reazione conservatrice alla svolta politica in atto all’epoca in Italia, «un colpo di coda, l’ultimo sussulto degli ambienti retrivi di Corte, della destra liberale incline al “principato costituzionale” alla prussiana, dei fautori della interpretazione restrittiva dello Statuto albertino».
Due anni dopo i fatti, il 29 luglio 1900, il militante anarchico Gaetano Bresci – all’epoca dell’eccidio emigrato negli Stati Uniti – intese vendicare i morti di Milano uccidendo il re d’Italia, Umberto I.
La situazione a Milano e il prezzo del pane
La questione del pane era molto sentita a Milano; il pane era l’elemento principale di nutrimento per le fasce più basse della popolazione. Nel 1886 quando agli ispettori daziari si richiese di far rispettare il regolamento del 1870 che implicava il pagamento del dazio a chi portava in città più di mezzo chilo di pane, si verificarono diversi tumulti a Porta Tenaglia da parte degli operai che «solevano al mattino portare portare seco loro un chilogrammo di pane e uno di riso di cui si servivano poi per il loro sostentamento durante la giornata»; il 1º aprile ci fu anche una manifestazione in piazza del Duomo con diversi arrestati. Il 3 aprile il Consiglio comunale ripristinò la “tolleranza” per chi introduceva il pane in città; era la prima volta che il Consiglio cedeva alle proteste di piazza e ci furono critiche da parte dei conservatori.
Nella seconda metà del 1897 la scarsità del raccolto dei cereali provocò un aumento del costo del pane. Il governo non prese provvedimenti, nonostante le richieste di abolizione del dazio sull’importazione del grano, che avrebbe permesso di abbassare i prezzi. Nel gennaio 1898 ci furono i primi moti di protesta in altre zone d’Italia; a Milano si intensificarono i ritrovi dei partiti di opposizione che denunciavano l’inazione governativa, ma invitavano a non trascendere con azioni violente; nonostante queste rassicurazioni il prefetto Antonio Winspeare si mostrava preoccupato che «perdurando l’attuale stato di cose ed avvenendo nuovi aumenti del prezzo del pane, la cosa potrà divenire seria» e proibì le riunioni pubbliche. Il governo stabilì una diminuzione provvisoria del dazio sul grano dal 25 gennaio al 30 aprile, però si ebbero solo minimi effetti sul prezzo del pane.
A marzo ci furono vari segnali preoccupanti per l’amministrazione comunale. Il 4, in occasione del 50º anniversario dello Statuto Albertino, all’Arena Civica si riunirono 12 000 persone per ascoltare i comizi socialisti; in piazza del Duomo la Marcia Reale venne sonoramente fischiata. Il 6 il radicale Felice Cavallotti fu ucciso in duello da Ferruccio Macola a Roma; i funerali si svolsero a Milano il 9 marzo.
Il 20 marzo le celebrazioni del 50º anniversario delle Cinque giornate videro la contrapposizione di due distinti cortei, al mattino quello delle associazioni liberali e al pomeriggio la commemorazione «radico-repubblicana-socialista-anarchica»; il secondo era «più numeroso e importante del primo». Nello stesso periodo si segnalarono diversi articoli de L’Osservatore Cattolico, diretto dall’intransigente don Davide Albertario, a difesa dell’associazionismo cattolico contro i moderati.[20]
Di fronte a queste manifestazioni pubbliche i conservatori lamentavano la debolezza del governo.
Ad aprile lo scoppio della guerra ispano-americana bloccò la possibilità di importazione di cereali dagli Stati Uniti. A Milano cresceva la preoccupazione per le manifestazioni del 1º maggio, che però trascorse senza incidenti. A turbare i precari equilibri, il 4 maggio giunse il decreto di richiamo alle armi della classe 1873.
Le truppe presenti
Dal 2 maggio venne data facoltà ai prefetti di affidare, in caso di estesi tumulti, la gestione della pubblica sicurezza all’autorità militare.
A Milano aveva sede il III corpo d’armata, comandato fin dal 1887 dal tenente generale Fiorenzo Bava Beccaris; il tenente generale Luchino Del Mayno era a capo della divisione Milano dal 1895.
Secondo le relazioni ufficiali, all’inizio di maggio del 1898 le forze totali disponibili per il presidio di Milano ammontavano a circa 2 000 uomini di fanteria, 600 di cavalleria e 300 di artiglieria a cavallo. Altri furono chiamati di rinforzo dopo l’inizio dello stato d’assedio.
I fatti
La ricostruzione dei fatti in studi storici è basata principalmente sull’esame della documentazione ufficiale. Il socialista Paolo Valera pubblicò varie testimonianze già a partire dal 1899; sull’argomento realizzò numerosi articoli nel periodico La folla da lui fondato nel 1901. Queste pubblicazioni, tese a screditare le relazioni ufficiali e in modo particolare Bava Beccaris, presentano però «diverse forzature».
È considerata di particolare interesse una lettera inviata da Eugenio Torelli Viollier a Pasquale Villari il 3 giugno 1898; dimessosi due giorni prima dalla direzione del Corriere della Sera, egli intendeva sfogarsi riportando un resoconto degli avvenimenti di Milano che non aveva potuto pubblicare.
A Milano il 6 di maggio agenti della polizia arrestano, nel corso di una agitazione, alcuni operai della Pirelli; verso sera, durante i tumulti davanti alla questura, due dimostranti restano sul selciato.
Il giorno seguente le organizzazioni operaie dichiarano lo sciopero generale e i milanesi scendono nelle strade. Poiché i questurini non sono sufficienti, la cavalleria viene incaricata di riportare l’ordine. Ma l’ordine non torna, non c’è verso. In molti quartieri popolari vengono alzate le barricate. Nel pomeriggio del 7 maggio il Governo decreta lo stato di assedio affidando il comando della piazza al generale Fiorenzo Bava Beccaris. Altri morti si aggiungono ai primi.
L’8 maggio è domenica, Milano è insorta come cinquanta anni prima contro gli austriaci, solo che stavolta nobili e borghesi stanno dall’altra parte. Il generale comandante ordina di sparare sulla folla. Col cannone ad alzo zero.
Il giorno 9 la rivolta viene gradualmente sedata; nel pomeriggio i bersaglieri espugnano l’ultima barricata in largo la Foppa.
Il 10 maggio si ebbe la riapertura di quasi tutti gli stabilimenti e della maggior parte delle attività. Non si registrarono altri incidenti degni di nota a Milano.
Monza furono repressi alcuni tumulti, per i quali già da domenica 8 erano state inviate truppe. A Luino ci furono proteste presso una caserma per ottenere la liberazione di un operaio che era stato arrestato giorni prima; guardie e carabinieri spararono sulla folla, provocando 4 morti e 10 feriti; da Milano e da Varese vennero inviate truppe di rinforzo.
Sempre il giorno 10 iniziarono a giungere dalla Svizzera notizie dell’organizzazione di un gruppo di operai italiani diretti in Italia per sostenere i tumulti. Mercoledì 11 lo stato d’assedio venne esteso alla provincia di Como e vi vennero inviate truppe, temendo un’aggressione armata al confine svizzero; venne richiesto un intervento al consiglio federale svizzero per fermare la possibile invasione. Il 15 maggio il treno che trasportava un gruppo di circa 200 operai, unici ad aver completato il viaggio attraverso i cantoni, fu scortato alla frontiera e consegnato alle forze dell’ordine italiane.
I dati ufficiali indicarono in totale 83 morti, cioè 81 civili, un agente di pubblica sicurezza e un soldato.
In tutti i territori sottoposti al generale Bava Beccaris furono arrestate in totale circa 2000 persone e ci furono circa 1140 deferiti al tribunale di guerra.
Si svolsero 129 processi con 828 imputati, dei quali 224 erano minorenni e 36 erano donne; nel complesso ci furono 688 condanne e 140 assoluzioni.[100] Circa 300 condanne furono con pene inferiori a 6 mesi e 85 con pene tra 5 e 16 anni di reclusione. La condanna a 16 anni fu per il socialista Dino Rondani, nel frattempo fuggito in Svizzera.
Le udienze si svolsero in una sala a pianterreno dell’ala sinistra del Castello Sforzesco, all’epoca oggetto di restauro da parte di Luca Beltrami e sede del Museo del Risorgimento e di altre istituzioni.
L’attenzione generale si concentrò in particolare su due processi, quello «dei giornalisti» e quello «dei politici».
Il processo detto «dei giornalisti» vide 24 imputati; solo alcuni erano effettivamente giornalisti. Vennero accusati principalmente in quanto appartenenti a gruppi anarchici, socialisti o repubblicani. Caso particolare fu quello di don Albertario perché i suoi articoli «gareggiavano cogli altri di violenza così da attaccare con sottile ironia la Monarchia e le istituzioni, seminando l’odio di classe fra contadini e padroni e fra le altre classi sociali e distogliendo buona parte del clero da quell’opera di pacificazione che per la sua missione sarebbe destinato a compiere, costituendo in tal modo un fomite alla rivolta anche con articoli violenti, quando questa era già scoppiata».
Il processo detto «dei politici» iniziò il 27 luglio e ebbe come imputati i deputati Luigi De Andreis (repubblicano), Filippo Turati e Oddino Morgari (socialisti). Nonostante l’immunità parlamentare, i tre erano stati arrestati durante lo stato d’assedio: De Andreis a Milano durante una perquisizione al giornale Il Secolo; Turati in questura a Milano dove si era presentato per avere informazioni sull’arresto di Anna Kuliscioff; Morgari era stato fermato a Roma. La Camera dei deputati aveva concesso l’autorizzazione a procedere contro di loro nella seduta del 9 luglio con 207 voti a favore, 57 contrari e 16 astenuti. Vennero accusati «perché, col mezzo di opuscoli, discorsi e conferenze, col mezzo dell’istituzione di circoli, comitati, riunioni e leghe di resistenza, e allo scopo, concertato e stabilito fra essi e altri capi ora latitanti di partiti sovversivi, di mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di governo, riuscirono a suscitare la guerra civile e a portare la devastazione e il saccheggio nella città di Milano nei giorni 6, 7, 8 e 9 maggio ora decorso, cooperando anche immediatamente e direttamente all’azione, e procurando di recarvi assistenza e aiuto».
La sentenza del 1º agosto 1898 condannò De Andreis e Turati a 12 anni, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, all’interdizione legale durante l’espiazione della pena e al pagamento delle spese processuali. Morgari fu assolto.
Con la fine dello stato d’assedio e il ritorno di varie pubblicazioni soppresse, iniziò una serie di appelli per l’amnistia nei confronti dei condannati.
Il 29 dicembre 1898 fu concessa un’amnistia per alcune pene stabilite dai tribunali militari di Milano, Firenze e Napoli: furono condonate le condanne fino a due anni di reclusione e le altre condanne vennero ridotte di due anni; per i minorenni e per le donne l’amnistia fu estesa per condanne fino a tre anni di reclusione; furono condonate le pene pecuniarie. In questa amnistia rientrò, ad esempio, la condanna di Anna Kuliscioff; don Albertario si vide la condanna ridotta a un anno.
Nel gennaio 1899 iniziarono le pubblicazioni della rivista Pro Amnistia che raccoglieva numerosi appelli; il primo numero conteneva scritti di Ernesto Teodoro Moneta, Filippo Meda, Claudio Treves, Edoardo Porro, Augusto Murri, Paolo Valera, Olindo Guerrini, Max Nordau e Adolfo Zerboglio.[114]
Il 3 febbraio 1899 la Camera dei deputati dichiarò decaduti Turati e De Andreis in seguito alla loro condanna; furono dichiarati vacanti i collegi elettorali di Milano V e di Ravenna I. Turati, ancora in carcere, fu ricandidato da socialisti, radicali e repubblicani nel collegio di Milano V e la sua elezione fu data per scontata, tanto che non si presentarono altri candidati; il 2 giugno la Camera annullò l’elezione.
Con decreto del 4 giugno 1899 Umberto I concesse una nuova amnistia senza limitazioni. Turati fu nuovamente candidato alle elezioni suppletive per il collegio Milano V che si tennero il 13 agosto; fu rieletto sconfiggendo nettamente il candidato moderato.