La favola bella del Fuorisalone, concomitante ogni anno con la Design Week milanese, rappresenta senza dubbio un esempio di pubblica manifestazione internazionale nata e cresciuta spontaneamente “dal basso” e caratterizzata, diversamente dal più istituzionale Salone del mobile, per l’approccio sperimentale ed eterogeneo ad una disciplina – quella del disegno industriale – nella quale l’Italia può certamente vantare ancora un ruolo da protagonista.
Dislocato senza una logica prevedibile in più punti del capoluogo lombardo, il Fuorisalone offre da alcuni anni il meglio di sé nei quartieri Tortona, Ventura Lambrate, Brera e, genericamente, ovunque in centro si trovi uno spazio occupabile. Poi certo è l’inevitabile tribunale radical-chic a decidere le pertinenze, il siparietto del passaparola mediatico riguardante l’identificazione dell’epicentro d’interesse stagionale, collocando conseguentemente tutto il resto nel trascurabile dilettantismo per sprovveduti, altresì detto “cheap” o zavorra kitsch (e fidatevi, ce n’è parecchio! E non so perché ci sta: forse per innalzare il buono?).
Perché col tempo s’è fatto chiaro che questo, oltre al rigore dei professionisti coinvolti e agli interessi delle importanti aziende presenti, è un momento di socialità trasversale, di fermento creativo e di vitalità metropolitana. Una diffusa atmosfera Pop e l’esibizionismo urbano autoreferenziale – come dimenticare l’invasione di hipster barbuti con ciabattine in velluto ricamato dello scorso anno? – costringono ad una misera sintesi: “tendenza” (eccolo qua, esattamente il termine che mai avrei voluto scrivere).
Eppure, al di là degli aspetti pittoreschi e modaioli, resta un vero piacere fare sera girovagando per luoghi altrimenti poco frequentati, locazioni post-industriali di una Milano sconosciuta ai più, poetica ed ancora sironiana, soprattutto negli aspetti che si discostano dalla “cartolina-duomo” o dal baccanale congestionato dei Navigli: fabbriche dismesse, retrovia di stazioni ferroviarie, sottopassaggi, vecchie autorimesse, scrostati cortili interni inesplorati, laboratori in disuso, più recenti ed anonime scenografie di vetro-cemento, forse appendici architettoniche degli anni ’80 ora ridotte dal terziario imperante a brutte scatole vuote. Flyer disseminati ovunque ipotizzano “l’evento” appena svoltato l’angolo, trattorie e bar-tabacchi si trasfigurano in mete imprescindibili dove ragazzotti albini cercano di farsi comprendere, anche solo per ordinare un piatto di pasta. Ecco, qui l’ormai antica e storicizzata vocazione industriale milanese si coniuga con l’effervescenza delle nuove autoproduzioni, l’anonimo anello di congiunzione tra centro e periferia diviene sede privilegiata per shoowrooms improbabili – stile accumulazione bazar, oppure rigorosi e scientifici secondo i dettami nord europei – dj set “proto-berlinesi”, aperitivi precari e convivialità postmoderna di varia natura, dall’eleganza ottocentesca con pizzo e monocolo alla rozza deriva punk’abbestia senza soluzione di continuità.
In fondo a Milano città importa relativamente dei suoi ospiti passeggeri, l’epicentro fagocitante che si dissolve in traffico nevrotico finito l’evento, il fulcro di ogni stile centrifugato con categorica sobrietà per preludere ad un’idea perfetta di astratta modernità, dal Romanico al Futuro, dall’alba al sole che cala. Alla stazione il via vai ci conferma quanto siamo di fretta, giudici e subalterni di quanto visto, privilegiati tutt’al più di un viaggio in tram sulla linea 1 ( che di suo è già più del design visto in tutto il pomeriggio), di un’intrusione forse illecita nei palazzi signorili ai più occlusi, di vecchie amicizie ritrovate qui per l’aperitivo, prima che la noiosa musica delle rotaie ci riporti a casa.