di Riccardo Pozzi
Il cibo è il vero specchio dei tempi, niente ci descrive meglio come ciò che mangiamo, come lo chiamiamo, come si presenta e come ci presenta.
Ogni famiglia, scavando nel passato, ha più o meno recenti collegamenti con l’agricoltura.
I suoi discendenti ormai non hanno più niente a che fare con la terra e le sue regole, ma nel passato quasi tutti hanno qualche ramo familiare che li lega al produrre del terreno.
Il cibo nella civiltà agricola era sostentamento e utilizzo intellligente delle risorse. Certo, l’invenzione e la rielaborazione hanno sempre guidato i più arditi in continue, infinitesimali, instancabili collimazioni e aggiustamenti. Ma il faro che rischiarava i nostri avi era la razionalità nell’uso di risorse alimentari e il Principe assoluto di questa filosofia era ed è il pangrattato.
Ogni cultura gastronomica prevede decine e decine di usi dove il pane raffermo e sbriciolato diventa attore importante se non , addirittura, protagonista. In questo la tradizione lombarda si sbizzarrisce in mille varianti.
Impastato con poche uova, estruso in mille forme, in brodo, asciutto, imbellito con infinite guarnizioni, il pangrattato è sovrano perché primario,ancestrale, primitivo. La sua francescanità assurge a postulato gastronomico.
Ciò che è cambiato è il significato che i contemporanei gli attribuiscono.
Quando Carlo Levi scriveva nel “Cristo si è fermato ad Eboli”, che le persone si appendevano al collo le sue ricette invece di recapitarle alla farmacia per avere il preparato, così come facevano con l‘ABRACADABRA centinaia di anni prima, ci consegna una meravigliosa chiave di lettura del senso di modernità e di obsolescenza. Oggi mangiamo il pangrattato molto raramente, lo si grattugia apposta per l’occasione e ci si guarniscono microscopiche porzioni, composte al centro di enormi piatti quadrati, con altri elementi estetici, così da far sembrare una irrilevante portata di pochi grammi come un’opera d’arte da ammirare con il gusto raffinato dalla metropolitanità.
Siamo di nuovo alla ricetta appesa al collo. Il pan grattato è portatore ignorato di una cultura talmente profonda e completamente incompresa dalle odierne abitudini da apparire estraneo.
Come se regalassimo uno smartphone ad uno scimpanzé. Ne rimarrebbe certamente affascinato ma finirebbe per appenderlo al collo come ornamento, ignorando completamente la quantità di informazioni che contiene.
Così la nostra gastronomia capricciosa e presuntuosa, gioca con la sacralità storica del pane grattato, fingendo di capirlo, in realtà ignorandone completamente il profondo messaggio storico.
E’ come se quei guru stellati si attaccassero un nuovo ABRACADABRA al collo come facevano i contadini della profonda lucania ai tempi di Levi, sperando in una guarigione indotta da quel pendaglio.
Sarà anche per questo che, al ristorante, invece delle splendide e cromaticamente geniali composizioni rarefatte di cibo guarnito come da un Mirò con l’influenza, preferisco un piatto in brodo di poverissimi capunsèi dell’alto mantovano, toccati solo dal mestolo in legno, che mi fanno sentire l’infinito nel semplice e il secolare lavoro di affinamento del cuoco più stellato, il popolo che lavora e non gioca col cibo.