Agli inizi del ‘900 il poeta dialettale don Doride Bertoldi raccontava la terra delle risaie mantovane, quella Sinistra Mincio incastrata tra la città di Mantova e il confine veneto, attraverso il linguaggio popolare del dialetto. Una poesia che nel 1934 Ettore Bolisani spiegava così: “le composizioni migliori sono quelle che riflettono l’ambiente locale, apparentemente prosaico nella natura monotona e malinconica del paesaggio, ma da cui egli sa trarre ricca vena di poesia, specie nella mirabile rappresentazione dei personaggi che s’agitano nelle piazze e nelle strade polverose o nelle case della povera gente o sugli argini dei fossati, da cui le rane fanno sentire «n’orchestra sensa diretor».”
La poesia di don Doride, raccolta nella Musa Paisana, nasce nel minuscolo centro di Villagrossa, piccola frazione collocata al centro tra i Comuni di Castel d’Ario, Roncoferraro e Villimpenta. Terra di risaia e di riso alla pilota. Terra di pescatori d’acqua dolce, nascosti nei reticoli degli stretti fossati di questa campagna piatta. “Neanche un prete per chiacchierar” canta Celentano, eppure con don Doride si poteva chiacchierare: bastava farlo al bar, assieme a tutta quella povera gente che animava quell’angolo di provincia mantovana.
Il dialetto di don Doride ha lasciato il posto ad un linguaggio mutato nella forma e nelle modalità espressive. Da sempre però questa è una lingua di confine e dunque cambia, di contesto in contesto, e offre una varietà che viene declinata dalla cultura popolare, nel breve volgere di qualche chilometro, con sfumature e accenti sempre diversi in ragione dell’influenza del vicino Veneto.
Anche queste sono Terre di Lombardia.
La terra, l’acqua, il riso e la fatica. E la parola ovviamente. Paolo Conte, in una canzone meno conosciuta, “Snob”, ha scritto: “noi di provincia siamo così, le cose che mangiamo sono sostanziose come le cose che tra di noi diciamo”.
Le radici contano. Se ne erano accorti due studiosi lontani nel tempo e nello spazio ma consapevoli del legame con la propria terra d’origine. Penso a Carlo Cattaneo e Antonio Gramsci. Ci dice Cattaneo che “la cultura e felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della politica, quanto dall’azione perenne di certi principi che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore di istituzioni”. Insomma, quelle forme di mentalità diffuse nelle comunità.
Quasi un secolo dopo, Gramsci scrive alla sorella Teresina “Franco [un nipote ndr] in che lingua parla? Spero lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nuociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia […]. Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro[1]”.
E tuttavia “non v’è lavoro, non v’è capitale che non cominci con un atto di intelligenza” ci spiega ancora Cattaneo. E il sardismo di Gramsci diventa una grande forza liberatrice per l’avvenire.
Insomma, si tratta di sapere, di ricerca, di conoscenza. Quello che oggi in tanti traducono con “know how” e che rischia di essere più povero senza il dialetto di don Doride.
Le radici contano, quindi, ed in particolare servono per poter parlare con il mondo. Del resto, che interesse avrebbe il mondo verso di noi se non avessimo nulla da raccontare?
[1] Gramsci 1965, cit.in Boninelli 2007, 64