A cento anni dalla nascita vogliamo ricordare il grande Gianni Brera attraverso uno scritto, pubblicato su “il Gazzettino” nell’ottavo anniversario dalla scomparsa, a firma del figlio Paolo dal titolo Mio padre “Gioann” Brera, buona lettura.
È difficile commemorare un padre. L’ho fatto molte volte imponendomi l’oggettività. Lo chiamavo Gianni Brera , come tutti, e non “mio padre”, perché il rapporto di parentela per i lettori è un fatto accessorio. Mi sono un po’ fregato con le mie mani: il Gioann non era solo un personaggio, ma anche l’uomo che mi aveva issato sulle spalle per premiare un goal segnato sulla spiaggia, una delle uniche tre volte che ho giocato a calcio in vita mia. Più volte mi sono rivolto mentalmente a lui per chiedergli scusa, per dirgli che al di là di quel che aveva fatto nella sua vita io gli volevo bene.
La prima cosa dell’uomo Brera che si deve capire è che lui non condivideva il nostro fuso orario. Viveva in realtà oltre il Golfo di Biscaglia, a bagno nell’Atlantico: si alzava alle 11. Beveva una tazza di tè di pessima qualità (l’unico alimento sul quale non era sofisticato) e leggeva i giornali. Verso le 13 si accomodava a tavola, consumava un’abbondante colazione con i cibi che si associano al pranzo. E, immancabile, un bicchiere di vino. Si tratteneva a conversare con chiunque capitasse a quell’ora e poi si scusava e andava nel suo studio a scrivere. La sua scrivania guardava un muro. A perdita d’occhio solo libri, carta, portacenere. Nulla doveva distrarlo. Verso le 19 o poco più finiva di scrivere. Non però di documentarsi: solo che per farlo passava alla tv. Il solo posto dove arrivasse prima delle 22 era il ristorante “A Riccione”, dove per 30 anni si riunì il club di amici del Giovedì. Considerato il tempo che passava a documentarsi la sua giornata di lavoro andava dalle 9 alle 12 ore. Unico giorno di riposo, il martedì. Di solito, finito il lavoro, si metteva a leggere libri, uno o due per notte. Fra le tre e le quattro del mattino, la mezzanotte medio-atlantica, spegneva la luce.
Ho capito solo negli ultimi tempi che prodigiosa macchina produttiva fosse la nostra famiglia. Tutto cooperava ad agevolare l’esercizio del più nobile mestiere al mondo dopo quelli del contadino e della casalinga. Non solo mia madre Rina, sua moglie, ma anche le sue due sorelle, Mariuccia ed Eta, si davano da fare per soddisfare le sue necessità, abbastanza limitate a onor del vero. Tranne l’esigenza di avere ospiti numerosi e frequenti.
Ho fatto amicizia con mio padre solo dopo i miei trent’anni. Lo amavo anche prima, ma a distanza. Ho però introiettato i suoi valori: il lavoro, la sincerità, il non far male a nessuno se non con un’aggressività aperta, perfino ritualizzata. Sei in disaccordo con qualcuno? Attaccalo, ma non lavorare in modo sotterraneo, non disconoscerne i meriti. Due esempi: di Rivera sosteneva l’inadeguatezza atletica, ma ne parlava come persona di estrema intelligenza. Gino Palumbo era un arcinemico calcistico, ma quando era alla Gazzetta e gli chiesero della nomina di Gino a direttore, rispose: “È l’uomo giusto per il giornale, è un grande manager”.
Ho molta nostalgia delle conversazioni con mio padre, di fronte a un bicchiere di vino che bevevo con scrupolo nel modo che lui insegnava: lentamente, a sorsate.Altri, negli anni dopo la sua morte, hanno rimpianto il Gioann, anche nel Nordest dove non mancava mai al premio “Risit d’aur” di Giannola Nonino, sua grande amica, in cui c’era ancora anche lui e in cui dispiegava la sua scienza e la sua simpatia. Io rimpiango veramente solo quest’ultima, ma immagino sia così per tutti i figli che vanno d’accordo col proprio padre: non c’è bisogno che sia famoso per sentirne la mancanza. Storia comune, che spero non vi abbia annoiati. Da domani, lo prometto, si ritorna all’oggettività.