La scorsa settimana, per lavoro, mi sono ritrovata nella parte ovest della Lombardia: precisamente tra Mesero, Magenta ed Abbiategrasso.
Proprio nei pressi di Magenta, ho abbandonato la SS526, Strada Statale dell’est Ticino, e mi sono ritrovata in un piccolo paesino, per me, fiabesco: un antico ponticello, una graziosa chiesetta affacciata sul borgo, una storica villa tanto strategica da dare origine ad una bizzarra segnaletica stradale necessariamente aggiornata alle esigenze del giorno d’oggi.
Ponte Vecchio o Pontevecchio (Pont Vegg in milanese) è una frazione di circa 3000 abitanti del comune di Magenta, nella città metropolitana di Milano, distante circa 2 km dal capoluogo del comune; confina ad est con Magenta, a ovest con la linea piemontese, a nord con la frazione magentina di Ponte Nuovo, a sud con Carpenzago, frazione di Robecco sul Naviglio ed è caratterizzato dalla presenza del Naviglio Grande che corre proprio in centro al paese.
L’appellativo di “Ponte Vecchio” dato alla frazione, venne conferito al borgo per la prima volta nell’Ottocento quando, per l’appunto, si costruì un nuovo ponte sul Naviglio Grande cosicché il seicentesco ponte del borgo assunse la denominazione di Ponte Vecchio, risalente al 1612, per distinguerlo dal nuovo.
Lasciatami alle spella sia la Statale che Magenta, sono rimasta via via affascinata dal percorso indicatomi dal navigatore … ogni metro percorso era un fiato mancato per la magia e la storicità che quel tratto mi suggeriva.
Giunta a casa, ne ho approfondito i dettagli.
Durante la storica battaglia di Magenta (episodio della seconda guerra di indipendenza italiana, combattuta il 4 giugno 1859), la posizione strategica di Pontevecchio fu aspramente disputata dalle contrapposte forze austriache e franco-sarde, che più volte riuscirono a conquistarla e più volte dovettero cederla: era fondamentale per gli austriaci mantenere il controllo dell’abitato di Pontevecchio allo scopo di avere il controllo sulla riva destra del Naviglio Grande e tentare l’aggiramento dello schieramento francese.
Ormai privi delle forze necessarie per l’ennesimo assalto, dopo l’ultima riconquista francese, gli austriaci si affidarono all’iniziativa del colonnello Leopold Edelsheim che decise di tentare una carica di cavalleria, nonostante quelle strade non fossero il terreno adatto all’operazione. Sotto il comando di Edelsheim, gli squadroni del 10º reggimento si lanciarono in una disperata carica all’arma bianca che riuscì a travolgere le linee nemiche, pagando però un grande prezzo di vite umane: pochissimi tra gli ufficiali dei drappelli tornarono senza ferite e molti non tornarono.
Senza il seguito della fanteria austriaca , tuttavia, i varchi causati dalle cariche di cavalleria vennero ben presto richiusi, rendendo vano il sacrificio del 10º reggimento. In verità, la vittoria venne comunque sfiorata, poiché uno degli squadroni penetrò in profondità lo schieramento franco-sardo tanto da investire lo stato maggiore del generale Canrobert, riuscendo ad eliminare due alti ufficiali; lo stesso Canrobert si salvò miracolosamente, lasciando nelle mani di un ussaro austriaco il colletto della sua divisa, grazie allo scarto e alla fuga repentini del suo cavallo imbizzarrito.
Proprio di fronte al Ponte, nei pressi di quel bizzarro “Stop” di cui ho accennato in apertura, sulla destra, mi sono trovata un imponente edificio, che scoprii essere Villa Castiglioni.
Villa Castiglioni venne eretta nel primo Seicento su terreni di proprietà della famiglia Crivelli, che qui stabilì una delle proprie residenze magentine.
L’erezione della costruzione avvenne in un punto strategico per la famiglia: vicino all’importantissimo ponte (vecchio) costruito sul Naviglio Grande.
La villa venne successivamente venduta alla curia milanese nel 1637 che ne fece una residenza estiva per gli arcivescovi; passò nel 1799 (con la secolarizzazione dei beni ecclesiastici della chiesa milanese) alla famiglia Castiglioni e fu protagonista dei tragici eventi della Battaglia di Magenta, ospitando Napoleone III che dalla torretta della villa osservò lo svolgersi dello scontro.
Attualmente la villa è sede del Parco Lombardo della Valle del Ticino.
Attraversato il Ponte, sulla sinistra, una tenera chiesetta osserva ogni giorno i magentini che passeggiano nella piccola piazza antistante.
Qui si trova la settecentesca chiesa parrocchiale di Ponte Vecchio, dedicata al culto della Beata Vergine Maria, progettata e compiuta da Carlo Giuseppe Merlo. La chiesa corrisponde ai canoni dell’architettura della cultura illuminista e si articola su un corpo centrale di forma circolare, che si sviluppa a cilindro, ed un corpo d’ingresso di forma quadrangolare che definisce l’accesso alla struttura.
La chiesa possiede un concerto di 5 campane in Reb4 Maggiore calante; le due campane minori sono originali ed opera di Davide Cobianchi di Milano; le tre maggiori sono state aggiunte dalla fonderia dei Fratelli Barigozzi qualche anno più tardi.
Le campane suonano tuttora a sistema ambrosiano e sono completamente manuali: esse possiedono le corde per il suono a concerto e la tastiera manuale per il suono a festa.
A seguito della grande presenza di fedeli, la piccola chiesa della Beata Vergine Maria non ebbe lo più lo spazio sufficiente per poter ospitare i residenti, così, la sede della chiesa parrocchiale venne spostata nella nuova chiesa dei Santi Carlo e Luigi edificata nel 1928, di poco distante.
La primaria chiesetta assunse dunque il valore di memoriale e cappella dedicata ai defunti della Battaglia di Magenta, Nella piazzetta affacciata sul borgo, una colonna granitica ricorda i nomi dei caduti a Ponte Vecchio durante gli scontri del 1859.
Come scritto poc’anzi, la chiesa Chiesa Parrocchiale dei Santi Carlo e Luigi, situata molto distante dal centro cittadino, nacque per sopperire alle esigenze della frazione di Pontevecchio di Magenta, La prima pietra fu posta l’8 settembre 1908 su progetto dell’ingegner Carlo Castiglioni e su incoraggiamento del 1903 del Cardinal Ferrari; a causa della penuria di mezzi e per lo scoppio della Prima guerra mondiale la costruzione della chiesa venne interrotta nel 1913 per poi riprendere intorno al 1923 con alcune modifiche strutturali apportate dall’architetto Cecilio Arpesani: la chiesa venne quindi aperta ai fedeli la notte di Natale del 1928 ed elevata a parrocchia il 21 marzo 1936.
Differentemente dalla prima, questa chiesa riprende i canoni dello stile neoromanico, con una tipica facciata mista di mattoni e pietre calcaree, così da creare un gioco di toni chiaroscuri che accolgono il rosone centrale in vetri policromi; qui si trovano i mosaici che rappresentano i Santi Pietro e Paolo e nella lunetta sopra il portale d’ingresso, leggermente strombato, si trova San Carlo Borromeo con San Luigi Gonzaga.
L’interno, anch’esso in mattoni e pietre calcaree, è costituito da un prevalente stile romanico e da un altare realizzato in polvere di marmo con una grande statua rappresentante il Gesù del Sacro Cuore. Il soffitto è decorato con grandi capriate lignee e l’area del presbiterio è illuminata attraverso due grandi vetrate policrome che rappresentano Santa Maria Goretti e San Domenico Savio.
A completare la struttura, nel giardino presso il tempio cristiano, si trova il campanile, la cui posa della prima pietra risale al 1937; anch’esso è realizzato in mattoni a vista, alla cui base si trova un memoriale dei caduti delle guerre mondiali.
Storicamente, infatti, l’edificio ebbe particolare rilevanza durante la seconda guerra mondiale, quando divenne un nodo della rete clandestina dei partigiani grazie all’operato del coadiutore Virginio Colzani e della 168ª brigata “Garibaldi”.
Ancora oggi, scrivendo questo articolo, ripercorro con la mente quel piccolo borgo e il tragitto fatto, non senza emozioni. Non chiedetemene il motivo: un’emozione ti coglie inaspettatamente ed è da lì che se ne possono cogliere e percepire gli elementi più nascosti … quei dettagli, che talvolta, rendono speciale il particolare.
Il territorio in cui viviamo, la nostra Regione, ci regala dettagli significativi, intrisi di storia, di passione, di tenacia, di cultura … sta a noi percepirne ogni aspetto e saperlo valorizzare.